La decrescita: l’ultimo volto del collettivismo

Tra le tante proposte che promettono una “nuova libertà” deve essere inserita quella della decrescita.

Ovviamente, anche in questo caso, per rendere l’argomentazione plausibile, alla parola libertà viene fatto subire un sottile mutamento semantico: non più libertà dal potere arbitrario di altri esseri umani, bensì libertà dal bisogno, o meglio libertà dalla costrizione che viene esercitata da quelle circostanze che inevitabilmente limitano l’ambito delle scelte di tutti noi.

Così intesa, la libertà è evidentemente solo un altro nome per identificare la volontà di deprimere la libera scelta individuale e colpirne la fonte, cioè la proprietà privata.

La prima apparizione del termine decrescita è fatta risalire alla pubblicazione, nel 1979, di una raccolta di saggi dell’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen, ma è solo con l’avvento del nuovo millennio, attraverso il lavoro del filosofo ed economista francese Serge Latouche, che la decrescita prende la forma di una vera e propria elaborazione concettuale e trova una sua collocazione davvero visibile nel dibattito culturale e politico.

Latouche è colui che qualifica la decrescita con gli aggettivi «serena» e «conviviale», mentre l’espressione «decrescita felice» è dote del saggista italiano Maurizio Pallante.

Difficilmente si può sostenere che gli autori della decrescita formino una scuola di pensiero in senso vero e proprio, più verosimilmente si può sostenere, invece, che compongano una galassia che ha molti punti in comune, declinati con tonalità diverse.

In ogni caso, esaminando il pensiero di Latouche, si può ottenere un quadro definibile come soddisfacente del pensiero generale della decrescita.

Latouche si pone in modo critico nei confronti della dimensione economica della vita umana, cioè non riconosce un ambito economico della vita sociale dotato di autonomia rispetto agli aspetti religiosi, magici, tradizionali ed etici.

In tal senso, l’economia sarebbe un’invenzione moderna, una costruzione culturale e storica nata tra il  XVI e il XVII secolo, un modo di concepire il rapporto tra l’essere umano e il mondo sconosciuto alle civiltà precedenti e alle culture non occidentali, da cui sarebbe necessario uscire perché, secondo Latouche, disumanizzante e basata sulla distruzione sociale e ambientale, nonché contraria a una civiltà basata sulla semplicità volontaria e su etiche di vita rispettose dei più indigenti.

L’invenzione dell’economia costituirebbe la nascita a tutti gli effetti della “società della crescita”, una società da condannare poiché quel che sarebbe soddisfatto in questa società, e sempre più man mano che cresce la produzione, sarebbero i bisogni dell’ordine di produzione e non i bisogni dell’essere umano, mentre l’abbondanza indietreggerebbe irrimediabilmente a favore del regno organizzato della scarsità.

Per Latouche è falso quindi il principio di scarsità, dato che la natura provvederebbe in modo spontaneo ai bisogni dell’essere umano.

Sulla scia di queste premesse, l’autore francese arriva a lanciare il suo attacco contro i diritti di proprietà: la proprietà privata non sarebbe una risposta al problema della scarsità, bensì la sua causa.

Secondo Latouche, infatti, la recinzione delle terre, una volta comuni, avrebbe iniziato a creare una miseria che prima non c’era, dato che prima ci sarebbe stata soltanto una povertà non scissa da una certa sobrietà, il che la rendeva un qualcosa di sicuramente positivo.

Latouche considera l’economia di mercato e il socialismo reale due varianti dello stesso fenomeno da condannare, cioè la società della crescita, ma per Latouche l’economia di mercato è certamente ancor più da condannare perché in essa vede la forma più estrema della società della crescita, cioè la forma più estrema di distruzione dell’ambiente e di tutto quello che è sociale.

Con una certa coerenza, Latouche va alla ricerca degli antenati progenitori del pensiero della decrescita e in questi inserisce Karl Marx (almeno per quanto riguarda la critica all’economia di mercato) ed Émile Durkheim, ma soprattutto Marcel Mauss e Karl Polanyi, mentre come precursori più immediati, oltre a Nicholas Georgescu-Rogen, inserisce pensatori come André Gorz, Jacques Ellul e Ivan Illich. 

Latouche, rifiuta l’esistenza di una reale dimensione economica della vita umana e, nel contempo, fa risalire questa dimensione, a suo parere, fittizia all’approccio psicologistico per cui l’economia sarebbe il risultato del desiderio di ricchezza, arrivando così alla bizzarra conclusione che sarebbe sufficiente eliminare o riformare tale desiderio per far venire meno questa dimensione.

Per la società della decrescita le parole chiavi sono convivialità, frugalità, sobrietà e austerità, attraverso le quali centrare l’obiettivo di una società nella quale «si vivrà meglio lavorando e consumando di meno»: per conseguirlo Latouche afferma che bisogna praticare l’autolimitazione del bisogno, non accorgendosi però che in questo modo finisce implicitamente per sostenere il principio di scarsità.

Cosa c’è oltre alla critica della dimensione economica della vita umana e allo slogan per il quale si vivrà meglio lavorando e consumando meno? Il cuore della proposta, in cui si invita a rompere con la dinamica della società industriale attraverso la direzione da parte dei pubblici poteri degli investimenti e la regolamentazione anch’essa da parte dei pubblici poteri del risparmio, cioè un programma di eco-collettivismo: 

ridurre l’impatto ecologico, tornando alla produzione materiale degli anni 1960-70; ridurre i trasporti internazionalizzandone i costi attraverso eco-tasse; rilocalizzare le attività; incentivare l’agricoltura contadina al punto da farla diventare un settore che occupi stabilmente il 10-20 per cento della popolazione; trasformare l’aumento di produttività in riduzione del tempo di lavoro e creazione di impieghi (Latouche auspica una giornata lavorativa di 2 ore); rilanciare la produzione di beni relazionali; ridurre lo spreco energetico di un fattore 4; penalizzare le spese di pubblicità; decretare una moratoria sull’innovazione tecnologica; riappropriarsi del denaro attraverso monete regionali.

Incline ai facili slogan, Latouche riassume le sue indicazioni in otto parole d’ordine che iniziano tutte per “erre”, cioè rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare e si preoccupa di affrontare anche le sfide di breve periodo, con ricette economiche della solita solfa statalista: nessun debito pubblico, in quanto le entrate dovranno coprire le spese, ma “in caso di deficit” emissione di moneta; imposte dirette progressive (sopra il reddito massimo legale anche del 100 per cento); imposte indirette sui “beni di lusso”; acqua, gas, etc. a prezzo progressivo, imposta patrimoniale.

Nel corredo della decrescita trovano spazio, inoltre, il reddito di cittadinanza e la previsione di un sistema che garantisca a tutti, per tutta la vita, un reddito pieno, in cambio di un certo numero di ore di lavoro da svolgere nell’arco dell’intera vita e che dovrà essere relativamente basso. 

Latouche, infine, afferma che la società della decrescita è fonte di una varietà incredibile di esperimenti sociali: resta da comprendere come si possa vedere ciò in un mondo che ha ampiamente svuotato i diritti di proprietà e quindi fortemente ostacolato il libero processo di mobilitazione delle conoscenze e delle risorse.

Come non essere d’accordo con l’obiettivo di perseguire relazioni di equilibrio fra lo sviluppo umano e la tutela del patrimonio ambientale o con l’andare ad analizzare i limiti del PIL, in quanto indicatore che consente una misurazione solo parziale della ricchezza in senso esteso, seppur la decrescita non colga il vero difetto di questo strumento approssimatore di fatti, cioè l’esclusione di tutte le spese “intermedie” che, a sua volta, produce sottostima dell’importanza dei “capitalisti” ed esagerazione dei consumi finali e delle spese statali. 

Tuttavia, sono inaccettabili, perché semplicemente infondate, l’idea che etiche di vita rispettose dell’altrui sensibilità richiedano come presupposto la marginalizzazione della ricerca dell’agiatezza materiale, l’idea che l’obiettivo di perseguire relazioni di equilibrio tra lo sviluppo umano e la tutela della natura passi attraverso la diminuzione della produzione dei beni e non, invece, per il miglioramento dei processi di produzione, l’idea che la pianificazione centralizzata possa pianificare gli sviluppi delle conoscenze future e centralizzare un’immensa quantità di conoscenze di specifiche circostanze di tempo e di luogo, l’idea che la proprietà privata dei mezzi di produzione non sia la base del “benessere” per il maggior numero di persone e il fondamento della “libertà” dei cittadini.  

In tutti gli autori della decrescita è riscontrabile sia l’assenza del riconoscimento che solo i miglioramenti introdotti dalla società aperta e dal mercato hanno permesso, ad esempio, l’allungamento dell’aspettativa di vita, il crollo della mortalità infantile, la diffusione di condizioni igieniche e alimentari accettabili, cure mediche e assistenza sanitaria un tempo impensabili, sia l’incapacità di capire che i diritti di proprietà privata incoraggiano le persone a conservare le risorse per il futuro più di quanto non facciano le regolamentazioni statali – a tal riguardo, informarsi sul lascito ambientale del defunto sistema sovietico. 

Infine, la dimensione economica della vita umana è reale e non è l’esito di un “colpevole” desiderio di ricchezza, ma un prodotto della condizione e dell’attitudine umana: tale dimensione è quindi generata dalla condizione di scarsità (siamo chiamati costantemente a economizzare) e dal fatto che l’essere umano è quell’essere che si caratterizza per praticare lo scambio, la cui generalizzazione è resa possibile dal denaro, cioè dallo strumento che entra in relazione con la totalità degli scopi da ciascuno perseguiti.

La tragedia di qualsiasi concezione collettivista consiste nel fatto che iniziano tutte con l’affermare di voler mettere la ragione al primo posto, ma finiscono poi tutte per distruggerla.

Riferimenti bibliografici

Nicola Iannello, «Crescita, decrescita e libertà di scelta» in Idee di Libertà: economia, diritto, società (a cura di Nicola Iannello e Lorenzo Infantino) Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2015

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